Quando capita di trovare un oggetto usato, carico quindi di una storia, si è sommersi da una strana emozione. Da pratica tradizionalmente diffusa, a progetti contemporanei come Studio Albori e Terunobu Fujimori, il riuso dimostra come la scelta di materiali di scarto possa intrecciare pragmatismo e simbolismo. Essere “raccoglitori” significa dare nuova vita a materiali che portano con sé storie uniche e ridurre l’impatto ambientale delle costruzioni, precisamente quello che i due esempi riportati realizzano nelle loro opere.
Il potere di un’altra vita
È comune in ogni città trovarsi di fronte a un negozio dell’usato e, incuriositi da oggetti o vestiti stravaganti, di varcarne la soglia imbattendosi in un mondo imprevedibile di stratificazioni, di storie, di vite , che non seguono nessuna disposizione legata alla vendita compulsiva. Nel momento in cui si decide di acquistare un vestito di seconda mano, magari il più estroso, ci si trova pervasi da emozioni contrastanti: la soddisfazione di aver acquistato qualcosa di unico, in quanto proprio di una vita che nessun’altro bene avrà mai, e forse anche la consapevolezza di aver contribuito alla gargantuesca battaglia per la sostenibilità.
Questo comportamento non è una novità. Il riciclo di scarti o beni di seconda mano è una pratica naturale, soprattutto in contesti di scarsità economica, e ha trovato spazio anche nell’architettura. Numerosi sono gli esempi storici di riuso di materiali, come le basiliche paleocristiane che utilizzavano rocchi di colonne di templi romani come capitelli, conferendo valore simbolico e riducendo i costi di lavorazione di nuovi blocchi di pietra. Queste pratiche, pragmatiche e ideali, hanno però subito un arresto nelle costruzioni su larga scala, specialmente dal XX secolo con l’avvento del capitalismo e della produzione di massa. Oggi per gli architetti è sempre meno comune ricorrere a materiali di scarto, a causa della riduzione dei tempi di progettazione, del consumismo che richiede un continuo ricambio e della necessità di standardizzare le prestazioni degli edifici per garantire comfort, un’esigenza legittima ma spesso troppo restrittiva per consentire l’uso di materiali di seconda mano.
Nonostante queste premesse poco incoraggianti, alcuni progettisti contemporanei riescono a rendere nuovamente attraente l’idea di adoperare materiali “donati” per conferire uno spessore unico ed estremamente specifico ai loro edifici. In particolare, di seguito sono presentati come esempi virtuosi lo Studio Albori, con sede a Milano, e Terunobu Fujimori, principalmente attivo in Giappone. Sono questi casi volutamente molto diversi che ambiscono a raccogliere le due dimensioni del riuso: quella pragmatica nel primo caso e quella simbolica nel secondo.
Studio Albori: riuso pragmatico
Il recupero di un casale a Montopoli di Sabina, Rieti (2021-23), è uno dei tanti progetti di Studio Albori in cui i materiali di recupero caratterizzano l’intervento. L’operazione consiste nella riconversione di un complesso rurale in stato di abbandono in un sistema misto di abitazione, laboratori serigrafici, spazi per le residenze artistiche e workshop. Unitamente al consolidamento strutturale dell’edificio e alla definizione di strategie energetiche efficienti e a basso impatto ambientale, come l’utilizzo di fieno come isolante e un sistema di produzione locale di energia, lo Studio si è concentrato nell’impiego di materiali di scarto.
Questo, probabilmente, è stato necessario per abbattere i costi, sia in termini economici che ambientali, ma anche per rendere il casale unico nelle sue inevitabili imperfezioni e imprevedibilità. In particolare sono stati utilizzati fibra e pannelli in legno, provenienti dagli imballaggi necessari per il trasporto delle opere della Collezione Panza di Varese, come elementi costitutivi delle pareti divisorie interne.
È interessante che in questo caso le pannellature non presentino alcun tipo di rivestimento, mostrando eventuali marchi o scritte appartenenti al loro precedente utilizzo i quali diventano quasi delle decorazioni. Altri elementi della costruzione come porte, maniglie, parapetti o grate sono stati acquistati in un robivecchi locale direttamente dagli architetti mentre le pavimentazioni esterne destinate a terrazzo sono ricavate dagli stridi delle piastrelle in gres impiegate all’interno.
Il risultato di questa operazione sembra l’esito di un collage in cui elementi con storie differenti vengono mischiati per creare un prodotto in cui gli attori sono chiaramente distinguibili e invitano un gli abitanti a prendere parte a questa danza di storie differenti. Infine, al punto di vista dell’impatto ambientale si può stimare che con i materiali riutilizzati le emissioni di queste operazioni siano state abbattute tra il 50 e il 60% (stima ricavando i dati relativi a un intervento simile dal testo “Reuse to Reduce”).
Terunobu Fujimori: riuso simbolico
Takasugi-an (dal giapponese “casa da tè che sta troppo in alto”) è la casa da tè progettata per sé stesso e autoprodotta da Terunobu Fujimori tra il 2009 e il 2011, che si mostra più come una casa sull’albero in quanto sorretta da due tronchi al naturale alti 6 metri. Per raggiungere la sommità sono necessarie due scale a pioli separate da un pianerottolo per riporre le scarpe. Lo spazio della casa da tè, appena sufficiente per accomodare tre persone inginocchiate, è rivestito su tutte le superfici verticali da stucco bianco mentre la pavimentazione è in parquet massello, ed è illuminato da un abbaino posto in corrispondenza del colmo.
In generale, l’idea di edificio progettato da Fujimori consiste nella necessità di unire le ultime tecnologie e elementi naturali spontanei, i quali devono mostrare il minimo segno di raffinazione da parte dell’uomo, e ciò è reso possibile nascondendo i primi e mostrando i secondi. Questo, unito al rifiuto di qualsiasi stile presente o passato, eleva i suoi edifici da una dimensione profana a una dimensione sacra, spirituale.
Ritornando al caso Takasugi-an, le idee sopra descritte si manifestano tramite la ricerca in natura da parte dell’architetto dei materiali base per la costruzione: Fujimori si è curato di reperire nella foresta vicino alla sua casa natale i due tronchi necessari a sorreggere la struttura, nonché alla scelta della terra cruda con cui rivestire l’esterno del volume. Tali semplici operazioni legate all’utilizzo di materiali estremamente sinceri e non lavorati permettono di instaurare un legame non solo simbolico ma anche tattile con la natura circostante: nell’osservare questa casa da tè si è sommersi da un inaspettato senso di familiarità, nonostante essa sembri non appartenere a nessun luogo e a nessun tempo, dato dalla possibilità che Fujimori si è dato di scegliere in un catalogo non scritto i propri strumenti.
Saper raccogliere
Osservando questi due progetti, e come essi integrano materiali “donati” in costruzioni contemporanee, ci si accorge in realtà di quanto sia unica questa possibilità: non è scontato infatti essere committenti di sé stessi, come nel caso di Fujimori, o di poter lavorare con clienti in grado di comprendere le potenzialità di queste operazioni. Inoltre, le difficoltà sono aggravate dalla mancanza di sistemi diffusi per la catalogazione e l’istruzione al riutilizzo di materiali di scarto. Esistono fortunatamente alcuni esempi virtuosi come il gruppo Olandese Platform CB’23 il quale puntava a raggruppare organizzazioni interessate all’utilizzo circolare di componenti per creare, entro il 2023, un sistema di tracciamento dei materiali di recupero, provvedendo anche a una guida per il loro utilizzo in situazioni specifiche.
Considerate le difficoltà nel riutilizzo dei componenti in edilizia, la figura dell’architetto come “raccoglitore” emerge come un mediatore capace di dare nuova vita a materiali donati i quali contribuiscono ad abbattere l’impatto degli edifici e a conferire loro uno spessore unico. Questa pratica, oltre a rispondere a sfide ambientali ed economiche, valorizza la dimensione narrativa degli oggetti, intrecciando storie e significati inediti. Tuttavia, affinché tale approccio diventi sistemico, è necessario promuovere strumenti di catalogazione e tracciamento, favorendo una circolarità che renda il gesto del raccogliere non solo una scelta personale, ma una possibilità concreta e diffusa.