Nel panorama musicale contemporaneo, è sempre più comune vedere giovani artisti che, dopo aver raggiunto il successo, scelgono di ritirarsi, almeno temporaneamente. Il burnout lavorativo nel mondo musicale, ovvero l’esaurimento fisico e psicologico causato da ritmi lavorativi insostenibili, sembra essere un fenomeno sempre più diffuso, in particolare tra chi è ancora giovane e ha carriere brevissime.

Ma cosa c’è dietro questo malessere? Siamo davvero certi che si tratti davvero solo di un problema legato alle pressioni dell’industria musicale, o forse c’è qualcosa di più che dovremmo considerare?

Le case discografiche, con il loro bisogno di generare successo e guadagni rapidi, spesso spingono gli artisti a produrre in continuazione, alimentando il circolo della visibilità e della produzione incessante. Da un lato, questo può spiegare il motivo per cui alcuni giovani talenti si ritrovano a dover gestire un ritmo di lavoro che sembra non lasciare loro il tempo di fermarsi, riflettere o crescere come artisti.

Ma potrebbe forse non essere solo questo ad alimentare una condizione di forte pressione ed enorme aspettativa. La riflessione che merita attenzione riguarda anche noi, il pubblico.

Se da un lato l’industria crea un ambiente competitivo e frenetico, dall’altro c’è una domanda costante di novità, di successi veloci, di contenuti sempre freschi e immediatamente fruibili. Forse ci siamo abituati a un consumo musicale che privilegia la quantità rispetto alla qualità, dove ogni artista o singolo è visto come una “novità” da consumare e poi lasciare andare.

La domanda che siamo chiamati a porci è: siamo davvero consapevoli di come il nostro modo di approcciarci alla musica contribuisca probabilmente a un sistema che spinge gli artisti a lavorare incessantemente, sotto una costante pressione?

Mi fermo per un pochino, perché si è chiuso questo cerchio. Volevo ringraziarvi tantissimo. Ho bisogno di tornare in studio, di capire tutto quello che di bello mi è successo in questi due anni da quel Sanremo Giovani fuori di testa per poi tornare con nuova musica che abbia senso di esistere, e senso di essere ascoltata. Siamo una famiglia e le cose vanno fatte con cura

Se non ci fermiamo mai a riflettere su questo, potremmo rischiare di restare intrappolati in un circolo vizioso, in cui il successo rapido e il consumo veloce diventano l’unica misura di valore. Ma se imparassimo ad ascoltare la musica con più pazienza, se fossimo disposti a dare agli artisti il tempo di evolversi, di sperimentare, forse potremmo contribuire a creare un ambiente più sano. Non un ambiente in cui la musica diventa una corsa senza fine, ma uno spazio in cui gli artisti possano crescere senza essere schiacciati dal peso di dover sempre “accontentarci” con qualcosa di nuovo.

La riflessione dopotutto è aperta. Siamo davvero disposti a cambiare il nostro approccio e a sostenere un tipo di consumo musicale più lento, più consapevole e più rispettoso dell’arte? O continuiamo a perpetuare, senza nemmeno accorgercene, un sistema che rischia di consumare gli artisti prima che possano davvero esprimersi? Il cambiamento di una condizione evidentemente troppo tossica, forse, potrebbe partire proprio da noi.

Perché, in fondo, se è vero che continuiamo a vedere i nostri artisti preferiti combattere contro i propri mostri personali, non è che forse, in parte, in quei mostri c’è anche un po’ di noi?

Il burnout lavorativo nel mondo musicale