Cosa ci stiamo perdendo escludendo chi non è uomo dall’industria?
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“Comunque vada stasera, una sola ragazza andrà in finale, e credo che questa sia un’enorme sconfitta. Meno donne vengono rappresentate nella musica, meno donne si avvicineranno alla musica, e noi continueremo a perdere la produzione musicale di metà del genere umano.”

Così Francamente, al secolo Francesca Siano, commenta il ballottaggio della semifinale di X Factor, noto programma televisivo di scouting musicale. La cantautrice e musicista torinese trapiantata a Berlino fa della sua arte un veicolo per trasmettere messaggi fondamentali di inclusione. E non perde questa occasione per dare visibilità alla marginalizzazione generalizzata (e di genere) di chi non è uomo nel mondo della cultura.

L’impianto patriarcale della nostra società non risparmia certo la musica, e l’arte in generale, che statisticamente continua a premiare e valorizzare figure maschili. Le impariamo ad applaudire, le ci abituiamo a vedere lì, sul palco, nello studio di registrazione, al mixer, alla regia di un videoclip. Abbastanza indisturbate nel proprio percorso, se non dalla competizione (con altri maschi). 

Nell’industria creativa, in cui di per sé globalmente le donne sono poco rappresentate, l’Italia arranca particolarmente, sia in termini di consapevolezza, che di azioni concrete verso il cambiamento. Non possiamo chiaramente accettare motivazioni legate al merito o al talento, di fronte a numeri che ci mostrano un problema sistemico.

Il report sull’industria musicale pubblicato da SAE nel 2021 ci dice che quell’anno, in Italia: compariva solo un’artista donna tra le prime venti posizioni dei dischi più venduti (Madame al quinto posto); le musiciste erano il 14,1% del totale degli artisti presenti nelle classifiche di Spotify; i ruoli da interpreti primari per le donne nelle incisioni musicali rappresentavano solo l’8% contro il 92% degli uomini; solo il 5% degli iscritti ai corsi triennali della SAE si identificava come donna.

 I dati diffusi dalla USC Annenberg Inclusion Initiative rafforzano la tesi della disparità di opportunità: su oltre 389.000 registrazioni analizzate in Italia, le donne occupano appena il 9% dei ruoli di supporto e questo divario aumenta ulteriormente dopo i 34 anni, evidenziando ostacoli come la maternità e la veloce “consumabilità” della figura femminile nel mercato. Inoltre, solo il 2,6% dei produttori musicali sono donne, e tra queste, meno di un terzo proviene da minoranze etniche. Ironicamente, nonostante la bassa rappresentanza, la musica prodotta da donne in Italia genera circa il 17% del valore economico delle opere analizzate.

Insomma, gli uomini cantano, scrivono, producono di noi, per noi, raramente con noi, liberi di perpetrare un immaginario musicale romanticizzato ed eteronormato, proteggendo l’ennesima arena pubblica da presunti attacchi turbo-femministi (aiuto, che paura!). Off limits.

Ben più paura dovrebbe farci l’idea di starci continuando “…a perdere la produzione musicale di metà del genere umano.” De facto, un’industria creativa così escludente non può che impoverirci, proponendoci il consumo di soltanto una frazione di note, una frazione di parole, una frazione di sentimenti, una frazione di complessità. 

In questo scenario demoralizzante, i media possono giocare un ruolo incredibile: in virtù della loro pervasività elevatissima, possono supportare il cambiamento superando gli stereotipi stantii e proponendo nuove prospettive. Per questo l’arte di Francamente ci fa bene e ai suoi messaggi vogliamo dare risonanza, finché non ce ne sarà più bisogno, e potremo goderci la musica, l’arte, la vita intera e per intero, nella sua strabiliante eterna diversità. Quindi, cosa ci stiamo perdendo escludendo chi non è uomo dall’industria? La risposta è tutta qui.

Cosa ci stiamo perdendo escludendo chi non è uomo dall’industria?